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Conosco Lino Barbalinardo da tanti anni e la nostra amicizia, per lo più, è scandita dalle canzoni dei Nomadi che interpretiamo nella band dei “Mercanti e servi”.
Lo apprezzo come interprete musicale e, esattamente con la stessa convinzione, anche come pittore. Il fatto è che credo nella complessità degli esseri umani in genere, ma anche nella coerenza, a volte latente, che accomuna le pur disparate emanazioni dell’anima attraverso varie espressioni come, appunto, quelle artistiche.
Ed è per questo che ho visitato la mostra dei dipinti di Lino (se fossi un critico d’arte dovrei chiamarlo “il Barbalinardo”, ma essendo semplicemente un amico continuerò a chiamarlo per nome) cercando il nesso tra la passione pittorica e quella musicale. Così ho guardato le sue opere pensando alle canzoni dei Nomadi e mi sono reso conto ancora di più di quanto interessanti esse siano.
Il mondo dipinto da Lino, nonostante sappiamo bene che “sempre azzurra non può essere l’età”, è un mondo che vive una eterna primavera. Intendiamoci, non di certo la “Primavera di Praga” ma una stagione ideale e interminabile fatta di infinite distese di fiori e generosissimi ulivi, piuttosto che di “grandi risaie e filari di pioppi”. Raffigurata con meticolosa pazienza, la campagna è allegra e viva “al sole caldo che guarisce tutti i mali”, romantica nel suo riproporsi come una immagine iconica proveniente da un passato forse ormai perduto in cui “in questa pianura, fin dove si perde, crescevano gli alberi e tutto era verde”. Una campagna rassicurante, dove non è vero che “cadono sull’erba mille bravi contadini”, campi di fiori in cui non troverai mai una pietra su cui ci sia “scritto così: ho difeso il mio amore”.
Ci sono “le colline più in là, e la strada che va”, un sentiero dolce e curvo che affianca piccole case dal sapore antico: dove sono le antenne, le paraboliche, i condizionatori, le auto parcheggiate, gli asfalti sgretolati e ostinati? Ogni casa è essenziale, ideale, e hai l’impressione che “ai primi scossoni può anche crollare”.
Ti immergi nelle immagini dipinte e ti accorgi di essere lontano nel tempo. Ti viene voglia di percorrerli, quei sentieri colorati, di dire “goodbye, my friend, goodbye” e anche “con le mani nelle tasche camminiamo sulla strada”. Ti piacerebbe avere “per giocare un aquilone”, ma ciò che vorresti davvero è fuggire via perché “nel mondo fatto di città Dio è morto” e non ne puoi più di vagare freneticamente “lungo le strade che non portano mai a niente” ricordando che ogni singolo giorno “lunga e diritta correva la strada, l’auto veloce correva”.
Poi qualcosa di diverso ha deviato il mio pensiero. Un mare, dipinto con maestria, che certamente sarà una delle destinazioni più affascinanti di quei morbidi sentieri tra i prati. Lo guardo e mi aspetto che si muova, perché sembra davvero che “l’estate gialla s’è nascosta nel mare” sotto un cielo privo del volo di “aironi neri”.
Mi convinco che è dunque questo ciò che avviene nelle opere di Lino dal tratto sicuro e scrupoloso, una trasformazione della nostra realtà in qualcosa di ideale che tutti vorremmo riemergesse da un recente passato, con la convinzione che “ricordi antichi sono le memorie, pane e lavoro sono le speranze” e che “il rimpianto rimarrà di quella età”.
Chiudo gli occhi per un attimo, poi li riapro e vorrei dire all’artista, con voce da bambino, “mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”
Raffaele Marra